Lunedì 1 agosto, S. Eusebio da Vercelli (f)
1 Agosto 2022 - Lunedì
Sant’Eusebio di Vercelli, Vescovo e Martire, Patrono della Regione Pastorale Piemontese (Festa)
Apri, o Spirito, i miei occhi e il mio cuore, per vedere le doti dei fratelli attorno a me
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo
Dal Vangelo secondo Giovanni (10, 11-16)
Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.
Commento
Come stai con la tua fede? Così si intitolava la prima lettera pastorale del nostro vescovo Franco Giulio, all’inizio del suo ministero nella nostra Diocesi. Come stai con la tua fede? È una domanda semplice, che a volte è bene porre a noi stessi, per ringraziare, chiedere luce e forza, per condividere sempre un cammino che abbraccia la nostra vita. Come stai con la tua fede? Sono parole risuonate anche nel cuore del santo che ricordiamo oggi: sant’Eusebio, primo vescovo di Vercelli, colui che ha portato il Vangelo anche nelle nostre terre, insieme al nostro primo vescovo san Gaudenzio. Possiamo immaginarlo percorrere le strade delle nostre terre, incontrando la gente, in quella conoscenza che trova la fonte nella conoscenza tra il Padre e il Figlio. Conoscersi, come ci conosce Dio, diventa quella missione che è buona notizia, Vangelo nuovo: la nostra vita non è nelle mani di qualcuno a cui non importiamo e che sta con noi solo per interesse, come il mercenario. La nostra vita non è oppressa dal pericolo di chi ci vuole rapire e disperdere, come lupo feroce. Noi siamo custoditi, da un Dio che è pastore buono. Da un Dio che dà la sua vita per noi e per tutti, la cui Parola farà di noi un’unica famiglia. Forse oggi, facendo il punto della nostra storia di fede, possiamo ringraziare chi ci ha trasmesso questo dono, da sant’Eusebio e san Gaudenzio, ai nostri nonni, genitori, amici: tanti testimoni che hanno ascoltato la voce del Signore Gesù, e l’hanno lasciata risuonare anche nel nostro cuore. Siamo parte di un cammino, in cui ognuno è chiamato a fare la propria parte: è l’avventura della fede.
Domanda
Come stai con la tua fede?
Preghiera
Signore Gesù,
aiutami a credere, quando sono nella notte.
Aiutami a ringraziarti, per i compagni nel cammino.
Aiutami a servirti, accogliendo la tua Parola.
Pillola
Dio ci ama. Non dobbiamo aver paura di amarlo. La fede si professa con la bocca e con il cuore, con la parola e con l’amore.
[Papa Francesco]
Padre Nostro - Ave Maria - Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito SantoTesti per riflettere
Sette ingredienti per cambiare. Introduzione al senso del pellegrinaggio
P. GIULIETTI, Il pellegrinaggio e i giovani: sette ingredienti per cambiare, in https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=15398:il-pellegrinaggio-e-i-giovani- sette-ingredienti-per-cambiare&catid=493&Itemid=1011
Un viaggio che si fa per cambiare
Cos’è che distingue il pellegrinaggio da altre modalità di viaggiare? Non il mezzo di locomozione: a piedi vanno anche i trekkers; non l’interesse per la natura o per l’arte, che riguarda molte forme di turismo; non la ricerca del silenzio e della solitudine, praticabile in qualsiasi monastero; non l’essenzialità o l’economicità, caratteristici anche del routard... Probabilmente è l’esistenza di una aspettativa circa l’esito dell’esperienza, che implica sempre la prospettiva di un cambiamento. Ci si fa pellegrini – a partire da qualsiasi genere di motivazione – perché si desidera cambiare.
Il film “In cammino per Santiago”, coglie bene questa dinamica: tutti i protagonisti – ciascuno con le sue motivazioni e convinzioni - sono mossi in fin dei conti da un’aspettativa di cambiamento, e alla fine ciascuno si troverà diverso, anche se magari non come si aspettava. Il desiderio profondo di vivere un’esperienza trasformante (quasi di conversione, “meta-noia”) - costituisce la ragion d’essere del pellegrinaggio.
D’altra parte il santuario, che è la meta del cammino, è un luogo che possiede, in virtù di una qualche manifestazione del divino, qualità e proprietà particolari in ordine a qualche aspetto della vita che si desidera cambiare: una malattia da guarire, un peccato da espiare, una relazione da ricostruire, una circostanza da superare, un voto da sciogliere... Non è detto che accada proprio ciò che uno desidera, ma qualcosa deve e può succedere!
Le dinamiche del cambiamento: sette “ingredienti” irrinunciabili
Come avviene che nel pellegrinaggio si cambi? Quali sono le dinamiche attraverso le quali il desiderio di trasformazione trova la sua realizzazione? Come testimoniano i diari di pellegrinaggio di ieri e di oggi, si tratta di processi che coinvolgono tutte le dimensioni della persona: il corpo, lo spirito e l’anima. In tali dinamiche agisce certamente la grazia, per produrre i frutti spirituali della conversione, ma si tratta di fenomeni squisitamente antropologici, non limitati al pellegrinaggio cristiano.
La prima dinamica è il distacco
Iniziando un cammino si esce dal quotidiano, per entrare in un nuovo rapporto con lo spazio e con il tempo; si assume anche un’identità diversa, quella di pellegrino. Esistono – ieri e oggi – numerosi “riti” che marcano tale passaggio: scrivere il testamento, indossare vesti e oggetti simbolici, accomiatarsi da ciò che è caro. In virtù di questa presa di distanza dal quotidiano, tutta la vita si orienta in modo diverso, tesa al raggiungimento di una meta. Essa non si limita a costituire il punto di arrivo, ma diventa criterio per ogni scelta e per l’organizzazione della giornata.
Ancora oggi mettersi in cammino significa vivere il distacco dalle cose di ogni giorno, rinunciare a oggetti e abitudini ritenuti indispensabili. Si usano indumenti speciali, si indossa lo zaino e si impugna magari un moderno “bordone”; ci si riveste con i simboli del cammino: una conchiglia, una maglietta, una croce, una spilla...
È un processo da ritualizzare con sapienza, magari sottolineandolo con alcune proposte provocatorie – “lasciamo a casa lo smartphone!” – o con la riproposizione di qualche antica forma di investitura.
La seconda dinamica è la fatica
Il disagio, la fatica, l’incertezza... sono componenti strutturali, del pellegrinaggio. Una volta si chiamavano “penitenza”; la sofferenza e l’umiliazione erano accolte come vie di purificazione, di allontanamento delle inclinazioni e delle azioni malvagie, per un autentico rinnovamento interiore. Nel caso dei pellegrinaggi giudiziali (comminati dal giudice) o penitenziali (imposti dal confessore), tale dimensione espiatoria acquisiva valore assolutamente primario.
Anche oggi la fatica del camminare e del vivere scomodamente fa parte del cammino. Il pellegrino sperimenta la propria inadeguatezza e le proprie possibilità; la scoperta sorprendente di potercela fare oppure l’amara consapevolezza del limite sono entrambi importanti fattori di verità: cadono, una dopo l’altra, le maschere. Quasi sempre il raggiungimento della meta viene vissuto come catarsi (il pianto, gli abbracci, la confessione...) proprio perché corona e celebra quello che la fatica ha fatto accadere nel cammino.
Da educatori, bisogna vincere la tentazione di eliminare o attenuare fatica e disagi (senza però rendere il pellegrinaggio un calvario), mentre è importante condividerne la sorprendente risonanza interiore.
La terza dinamica è la solitudine
È forse la componente più moderna del pellegrinaggio; in antico raramente si partiva da soli, poiché la compagnia era un indispensabile aiuto o un’opportuna cornice: alcuni pellegrinaggi fraternali del ‘600 erano addirittura realizzati come solenni processioni, con tanto di banda e stendardi!
La possibilità di godere di spazi solitari e di lunghe pause di silenzio appare oggi come una componente essenziale del cammino. Proprio perché calma e silenzio sono merci rare nella vita frenetica di ogni giorno, vengono particolarmente cercati e apprezzati, come opportunità di “ritorno in se stessi” e laboratorio del percorso spirituale. Chiaramente, tanto più lungo e solitario è il cammino, tante più occasioni si offrono all’interiorità di ciascuno. Nel silenzio si fa spazio anche la meta, il suo potere motivante, il suo carico di desideri, immagini, aspettative... Quasi sempre i pellegrinaggi dei giovani sono fatti in gruppo e durano pochi giorni. Proprio per questo, il tempo del silenzio e della solitudine va programmato e proposto con attenzione e con la debita gradualità. Perché non dedicarvi ogni giorno la prima ora di cammino?
La quarta dinamica è la compagnia
Si camminava quasi sempre insieme a qualcuno. Il popolo pellegrini viveva di incontri, di conoscenze, di sostegno reciproco. Per questo lungo le vie di pellegrinaggio è potuta maturare un’identità comune: “L’Europa è nata pellegrinando e il suo linguaggio è il cristianesimo” (Goethe).
Ancora oggi il pellegrinaggio regala l’esperienza di una compagnia inedita, unita dal condividere momenti di cammino o di sosta. È un’esperienza singolare di umanità (e di cattolicità), alla quale contribuiscono i non-pellegrini che lungo la strada pongono gesti sorprendenti o supportano il cammino con il loro servizio. Emerge così il costitutivo bisogno dell’altro e cade la falsa idea di autosufficienza: gli altri ci sono necessari, come noi agli altri. Ne nasce spesso una nuova fiducia nell’uomo, insieme al il desiderio di vivere in modo diverso le proprie relazioni (solidarietà, intergenerazionalità...). Nell’affollamento e nella solenne ritualità della meta si rende visibile il popolo del cammino, che celebra la propria comunione.
C’è poi una compagnia invisibile che caratterizza il cammino: le persone care - vive e defunte - che ciascuno porta nel cuore, la cui presenza emerge con sorprendente forza nell’interiorità o anche nelle conversazioni: la “comunione dei santi” - diremmo noi - sul cammino, è una realtà. È importante non accontentarsi di una compagnia “chiusa”: anche quando si vive l’esperienza in gruppo, la più ampia relazionalità che può nascere costituisce una risorsa educativa importante.
La quinta dinamica è la meraviglia
Per molti, il pellegrinaggio era il viaggio della vita: un’opportunità per conoscere nuovi luoghi e culture, per ammirare paesaggi, città e grandi cattedrali. Le narrazioni di viaggio sottolineano il piacere della scoperta (anche gastronomica!) e la meraviglia dinanzi ai capolavori dell’architettura e dell’arte presenti nei santuari.
Ancora oggi nel cammino si rimane colpiti da molte cose: la rinnovata esperienza del creato; la più intensa percezione del territorio che nasce dall’attraversarlo a piedi; la possibilità di godere dell’arte e delle vestigia del passato disseminate lungo la strada. Si ha il tempo di “guardare” il mondo, non solo di vederlo scorrere da un finestrino. Il pellegrino impara a fermarsi; non è un più “consumatore”, ma un contemplativo. Riconosce e apprezza piccole grandi cose: il fatto che ci siano non è scontato, ma riempie di gratitudine e di meraviglia.
Una guida sapiente non mancherà di sottolineare, lungo il cammino, ciò per cui vale la pena fermarsi, suscitando consapevolezza, apprezzamento e riflessione.
La sesta dinamica è la tradizione
Il pellegrino vive nel solco di una tradizione che può essere corta (l’amico che si racconta su facebook e mi invoglia) o lunghissima (la pellegrina Egeria che mi trasmette il fascino della Terra Santa col suo diario vecchio di sedici secoli). Una “vera” via di pellegrinaggio porta a ricalcare i passi di chi già percorso lo stesso cammino, le cui le tracce sono appaiono non solo nei diari, ma nell’assetto del territorio, nelle manifestazioni dell’arte, nella diffusione dei simboli ...
Non si tratta di fare dell’archeologia, ma di lasciarsi in tutti i sensi “guidare”: il percorso, ma anche i suoi significati e le sue suggestioni, non ce lo diamo da soli, ma lo riceviamo da altri. Ben lo sapevano i pellegrini medievali, che non potevano disporre di mappe e segnaletica, ma avevano bisogno di rifarsi continuamente agli scritti di qualche predecessore o alle indicazioni degli abitanti del luogo.
Di questa dinamica molti pellegrini diventano protagonisti, nel momento in cui, compiuto il cammino, se ne fanno narratori, quasi a cercare nello scrivere il compimento dell’esperienza: per essere pienamente accolta necessita di verbalizzazione e comunicazione. Carta e penna non perdono il loro fascino, anche se tanti ormai fissano le giornate trascorse sul tablet o direttamente in rete, con tanto di foto del percorso. Il cammino, così, viene narrato e tramandato, perché, mentre ci si racconta, si diventa promotori e guide dell’esperienza. Nonostante la stanchezza, la sera – o il viaggio di ritorno – è un momento prezioso per una narrazione, personale o collettiva, che permetta non solo di fissare la memoria, ma di cogliere
il senso del vissuto. Magari per comunicarlo, nell’immediatezza dei social o una volta tornati, ai genitori o agli amici che sono rimasti a casa.
La settima dinamica è la preghiera
Dai “Cantici delle ascensioni” del salterio alle pratiche esicastiche del pellegrino russo, la preghiera appartiene strutturalmente al cammino e trova il suo vertice nei riti che vengono celebrati nei luoghi santi, specialmente alla partenza e all’arrivo.
Oggi la cosa non è più così scontata, soprattutto per i tanti che dichiarano di accostarsi all’esperienza per curiosità, per seguire una moda o per la voglia di una vacanza low cost. Nel pellegrinaggio, però, la trascendenza si infila quasi senza che uno se ne accorga. Il fin dei conti, quando si abbandona la quotidianità per dirigersi con fatica verso una meta, si adotta una logica di trascendenza. Lungo la strada, poi, si incontrano persone e occasioni che hanno il sapore del divino e toccano il cuore. Non sempre ciò sfocia nella preghiera esplicita: a volte si tratta più di un confuso anelito verso il Mistero, che necessita di essere decifrato e orientato.
Nel pellegrinaggio non mancano opportunità per proporre momenti di preghiera, che quasi sempre trovano una inaspettata rispondenza interiore. La bellezza del creato e dell’arte, certamente, sono di aiuto; ciò che più conta è però l’emergere di sentimenti e percezioni divenute inconsuete, che dispongono alla relazione con un Mistero divenuto vicino. Il cambiamento confusamente cercato può finalmente essere accolto come dono di Colui che fa nuove tutte le cose.
Mettersi in cammino
G. BASADONNA, Spiritualità della strada, Fiordaliso, Roma 20102, 48-51
La route [il cammino] comincia: ci si mette per strada. Non è solamente un campeggio dove si forma un’altra stabilità, diversa da quella domestica ma pur sempre solida e sicura: è un mettersi in cammino per raggiungere ogni giorno una meta nuova, senza mai stabilizzarsi. Perché́ si esce di casa? Perché́ si affronta l’ignoto e si abbandona una sicurezza? Perché ci si mette in una situazione precaria?
C’è un richiamo, un invito: qualcuno o qualcosa ci ha stimolato, ci ha fatto sentire una voce che chiama, ci ha fatto venire la voglia di uscire e di metterci in cammino verso nuovi orizzonti.
C’è una intuizione, un desiderio, un sogno; c’è quel fascino dell’ignoto che batte al nostro cuore e lo seduce; c’è quella attrattiva che viene da lontano e vince le nostre riluttanze.
C’è una sintonia misteriosa che conduce verso realtà̀ diverse e apparentemente contrastanti con le nostre comodità̀ e il nostro benessere, e ci fa superare le ultime resistenze.
All’inizio di una route c’è sempre una chiamata: non è solamente l’invito organizzativo, né il dovere legato alla propria partecipazione a questa o quella associazione.
Anche se queste occasioni burocratiche hanno la loro importanza e di fatto danno origine all’esperienza della strada, la chiamata viene da più̀ lontano e dal più̀ profondo: è una chiamata che risuona dentro di noi, è una voce diversa dalle solite che scaturisce nel nostro spirito e che difficilmente si riesce a soffocare.
È in fondo la voce di Dio, è quella stella che misteriosamente è brillata in oriente e ha mosso i sapienti a venire fino a Gerusalemme e a Betlemme: «Abbiamo visto la stella, e siamo venuti». Sembra una logica assai semplice e determinante, eppure è la logica della più̀ grande libertà e, nelmedesimotempo,dellapiù̀ granderazionalità̀:sesentiunavocestraordinaria,sevediun fatto nuovo, non puoi restare come prima, non puoi fingere di ignorare, ma devi partire e andare a vedere.
La tua libertà, sollecitata da questo richiamo forte e deciso, deve rispondere: solo così sei libero, cioè̀ solo così vivi tutte le tue esperienze e non elimini nulla, non lasci da parte neppure una briciola della tua personalità̀ .
La voce della tua fantasia, dei tuoi sogni, dei tuoi desideri più̀ coraggiosi, dei tuoi ideali più̀ alti ti chiama e ti invita a metterti per strada: è la voce di Dio, di quel Dio che ti abita dentro e che ti vuolefarepiù̀ grande,tivuolepiù̀ libero,etiportafuori.ComeperAbramo,Dioticonducefuori e ti dice: «Alza gli occhi e conta le stelle del cielo, se puoi. Così sarà̀ la tua posterità̀ » (Gen 15,5). È Dio che ti vuole fare capire il senso profondo della tua vita, di questa tua esistenza che troppo spesso ti appare stupida o assurda, inutile per te e per gli altri: è Dio che vuole aiutarti a capire la tua fede, il tuo rapporto con Lui.
E non c’è modo migliore che «uscire», mettersi in cammino, abbandonando le sicurezze e le abitudinitroppopesanti,chesoffocanoiltuoslancioetichiudononellatuapovertà̀ quotidiana. Mettersi per viaggio è, allora, anche un modo per verificare la propria fede, per accorgersi realmente del valore del credere, per toccare con mano che cosa significa «cercare», cioè̀ sapere e non ancora vedere, sentire la mancanza di qualcosa che preme e di cui si ha bisogno, avvertire un vuoto che non può̀ restare ed esige di essere colmato.
Il coraggio di uscire, di abbandonare ripari e difese troppo spesso limitanti, di rinunciare a quanto già̀ si ha per ottenere ciò̀ di cui si avverte il bisogno: questo è mettersi in viaggio. E non è facile. C’è sempre qualche scusa, qualche motivo che appare come buono e serio per restare dove si è, per continuare come si è, per non partire. Ma è paura, è vigliaccheria, è falsità̀ , perché́ vero invece è il nostro estremo bisogno di cambiare, di crescere, di conoscere, di rispondere agli interrogativi più̀ urgenti che battono dentro di noi.
Bisogna uscire, mettersi per strada, abbandonando il solito, le abitudini, anche le più̀ sacre, e mettersi a disposizione di Dio, della verità̀ tutta intera, dell’amore, della gioia che sono il vero nostro destino.
Ci vuole una buona dose di coraggio: ma per fortuna c’è qualcuno che ci invita, ci accompagna, che almeno inizia con noi la nuova strada.
Civuoleunacomunità̀ cheinviti,cheorganizzi,chefacciavenirelavoglia:civuolequalcunopiù̀ esperto e più̀ coraggioso, più̀ amante del rischio, che trascini con sé.
Ci si mette per strada: un senso di sgomento e di ansia ci assale.
Si avverte subito la propria piccolezza, la debolezza, il limite, e tutto sembra così difficile e pericoloso.
Ma poi, appena si comincia, appena la strada si snoda sotto i nostri passi, ci si accorge che, come le nebbie del mattino, la paura si dilegua e adagio adagio sorge il sole.
Domande
«All’inizio di una route c’è sempre una chiamata: non è solamente l’invito organizzativo, né il dovere legato alla propria partecipazione a questa o quella associazione».
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Come sei arrivato a questo pellegrinaggio: con quali domande, quali fatiche, quali gioie, quali richieste?
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Cosa ti spinge ad intraprendere questo pellegrinaggio, quale invito, quale voce?
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Quali sono le tue aspettative?
«E non c’è modo migliore che «uscire», mettersi in cammino, abbandonando le sicurezze e le abitudini troppo pesanti, che soffocano il tuo slancio e ti chiudono nella tua povertà̀ quotidiana».
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Cosa porti con te nel tuo “zaino”? Cosa lasci a casa?
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Cosa cerchi in questo pellegrinaggio?
«Mettersi per viaggio è, allora, anche un modo per verificare la propria fede, per accorgersi realmente del valore del credere».
• Come “sta” la tua fede? Qual è il tuo rapporto con il Signore in questo periodo? Cosa desideri, cosa/ chi affidi?

